16 ottobre 2007

Intervista a Guido Carli

Roberto Maurizio intervista Guido Carli


Presentiamo l'intervista con Guido Carli, Governatore della Banca d'Italia dal 1960 al 1975, pubblicata sul numero 14 della rivista "Cooperazione" del Ministero degli Affari Esteri italiano, anno IV, luglio 1980.

LE SCELTE IMPROROGABILI
Intervista con Guido Carli

di Roberto Maurizio e Paolo Galeotti


La cooperazione industriale dovreb­be avere uno spazio importante nelle negoziazioni Nord-Sud. Il dialogo attualmente è interrotto o quanto meno reso farraginoso da incom­prensioni tra i negoziatori sugli stes­si termini del problema. Quali sono, a Suo avviso, i limiti che i paesi industrializzati incontra­no nel realizzare la cooperazione al­lo sviluppo?

L'aumento del prezzo del petrolio e la conseguente accumulazione di avanzi della bilancia dei pagamenti in un gruppo ristretto di paesi espor­tatori ripropone il problema del fi­nanziamento dei loro disavanzi. I paesi industrializzati infatti finanzia­no i propri disavanzi in larga parte mediante prelievi dalle riserve, pro­vocando così un trasferimento di ri­serve di liquidità internazionale uni­camente verso i paesi esportatori. Ovviamente questo processo con­durrebbe alla paralisi quando la continuità degli squilibri conduces­se ad una concentrazione di riserve presso un gruppo limitato di paesi ad un livello di guardia assai perico­loso. Subentra allora il sistema fi­nanziario internazionale, che però pone il problema della maggiore o minore facilità di accesso da parte dei diversi paesi. Nell'ambito dei paesi in via di svi­luppo, occorre distinguere quelli che sono più prossimi all'industria­lizzazione degli altri. Questi hanno maggior facilità di accesso: quindi gli squilibri della bilancia dei paga­menti, aggravati dai recenti aumen­ti del prezzo del petrolio, penalizzano i paesi più poveri, in quanto meno degli altri hanno accesso al sistema finanziario internazionale. Se noi osserviamo le cifre pubbli­cate dal Fondo Monetario Inter­nazionale notiamo che nel perìo­do compreso tra il dicembre 1977 e il settembre 1979 l'indebitamen­to netto, cioè debiti meno crediti, dei paesi in via di sviluppo verso il sistema bancario internazionale — quindi verso le maggiori banche o-peranti sul piano internazionale — è salito da 49 a 74,7 miliardi di dolla­ri, con un incremento di 25,7 mi­liardi di dollari. La quasi totalità di tale aumento concerne i paesi dell'emisfero occi­dentale (17,4 miliardi di dollari su 25,7). L'indebitamento netto di questi paesi sale da 40 a 57,4 mi­liardi di dollari. Nell'interno di que­sta area si concentrano paesi come il Brasile e il Massico. Gli squilibri della bilancia dei paga­menti sono quindi attualmente fi­nanziati dal sistema monetario in­ternazionale. In conclusione, nella situazione at­tuale, i paesi che incontrano gli o-stacoli finanziari più aspri lungo il cammino dello sviluppo sono quelli che hanno un'alta densità di popola­zione, e nello stesso tempo una bas­sa capacità di accesso al credito. Ad esempio, in questo periodo noi con­statiamo che l'indebitamento netto dei paesi africani sale da 8 a 10,3 miliardi, cioè sale di 2,3 miliardi. In altre parole, l'aumento del prez­zo del petrolio ha introdotto nel meccanismo finanziario internazio­nale un profondo rivolgimento, per­ché ha determinato una ridistribu­zione degli avanzi e dei disavanzi. Restano i disavanzi dei paesi in via di sviluppo, ma gli avanzi, di con­tropartita, si sono spostati e concentrati in alcuni paesi con scarsa propensione all'assunzione del ri­schio del finanziamento verso paesi in via di sviluppo. Quindi resta la funzione di interme­diazione del sistema bancario, il quale, a propria volta, urta contro il limite rappresentato dall'entità del rischio, che sposta il finanziamento medio e lo concentra nei paesi a mi-nor rischio. Assistiamo allora ad una continuità di flusso di finanzia­mento verso paesi come il Messico, il Brasile, ed entro certi limiti an­che verso paesi come la Corea del Sud e le Filippine, e allo stesso tem­po vediamo ridursi tale flusso verso paesi più depressi e quindi ad alto rischio nei confronti dei quali si concentra solitamente l'attenzione quando si propone il problema del dialogo Nord-Sud. In conclusione, nonostante la mi­gliore disposizione di alcuni paesi industrializzati, i flussi di fondi che si dirigono verso paesi in via di svi­luppo sono largamente inadeguati a promuovere proprio lo sviluppo di quei paesi che ne avrebbero maggio­re necessità.

Cosa può fare in concreto l'Italia?

L'altro ostacolo che incontrano i paesi in via di sviluppo è rappresen­tato dall'assenza di progetti e, conseguentemente, uno dei modi con­creti con cui promuoverne lo svi­luppo è rappresentato dall'assisten­za nella progettazione. Trattandosi di un campo che non impegna tanto imponenti risorse finanziarie, quan­to piuttosto capacità professionali, che nel nostro Paese non mancano sicuramente, credo che l'Italia possa contribuirvi in modo più tangibile. Ritengo perciò che è proprio in questa direzione che noi potremmo svolgere un ruolo significativo, men­tre permango pessimista nel prospet­tare il nostro intervento in campo finanziario, in quanto in questo mo­mento non si riescono ad indicare con sicurezza soluzioni appropriate. Nel campo della progettazione, quindi, potremmo impegnarci di più, organizzandoci per collaborare all'attuazione di progetti globali. Sulla base della mia esperienza di­retta, in qualità di presidente dell' Impresit in Nigeria, posso dire che il complesso di opere di irrigazione compiute in questo paese si classifi­ca, tra queste iniziative, come una delle più consistenti nel quadro dei programmi di bonifica. Però il suo successo d'insieme è legato ad una serie di progetti finalizzati da un la­to a rendere produttive le aree irri­gate, dall'altro a instaurare le condi­zioni per la lavorazione dei prodot­ti, con un complesso di iniziative che richiedono un certo tipo di col­laborazione e di coordinamento. In via ipotetica, l'opera di coordina­mento potrebbe essere svolta dal Ministero degli Esteri. Ho citato questo esempio soltanto perché lo conosco per esperienza diretta, ma non ritengo affatto che sia l'unico caso.

Anche alla luce del recente dibatti­to internazionale, che collocazione darebbe all'industrializzazione nelle priorità dell'aiuto allo sviluppo?

Sono del parere che i problemi dei paesi in via di sviluppo non siano identificabili esclusivamente nell'in­dustrializzazione: il vero problema è l'investimento. Ecco perché ho ci­tato quel progetto che è un proget­to di opere idrauliche, di irrigazio­ne. In questi paesi vi è il complesso problema dell'accrescimento della produzione agricola, e questo, a sua volta, richiede il finanziamento del­le infrastrutture, nonché l'adatta­mento dell'assetto sociale. In questi paesi si pone il problema di ridistri­buzione della proprietà della terra e, indipendentemente da ciò, vi è il problema della aggregazione della proprietà dispersa; vi è, inoltre, il problema della cooperazione e, quindi, il problema dell'educazione alla cooperazione.

Nell'ambito del Terzo Mondo esi­stono paesi semi-industrializzati (Brasile, Messico, eco.), i cosiddetti NICs, che in un immediato futuro potrebbero essere concorrenti ag­guerriti delle imprese del Nord. Co­sa pensa Lei di questi paesi?

Anche questi paesi presentano due tipi di problematiche: quella del settore agricolo e quella del settore industriale. Anch'essi, infatti, risen­tono del problema della produzione alimentare, in presenza di una situa­zione demografica senza precedenti; nello stesso tempo si trovano di fronte al grande problema della creazione di posti di lavoro, in mi­sura corrispondente all'entrata sul mercato del lavoro delle generazio­ni — attualmente al di sotto dell'età lavorativa — che si sono numericamente ingigantite. Quindi anch'essi devono comprensibilmente dirigersi verso l'industrializzazione. Ed allora, quali sono i settori nei quali questo processo tenderà a ma­nifestarsi con maggiore intensità? Secondo me, ciò avverrà sia nei set­tori di lavorazione delle materie pri­me, delle quali essi dispongono, sia nei settori ad alta densità di mano d'opera. Cioè, è evidente che l'indu­strializzazione tende a gravitare attorno alla prima e alla seconda la­vorazione delle materie prime, in quanto si tratta di settori ad alta densità di mano d'opera. In fondo questi paesi hanno alcune materie prime, ma molta mano d'opera, ec­co perché il processo di industria­lizzazione si muove in questa dire­zione. Ciò pone all'Europa nel suo insie­me un problema molto complesso di aggiustamento strutturale, che deve tener conto di un mutato rap­porto nella distribuzione internazio­nale del lavoro, perché, di fronte a questi andamenti, una delle reazioni possibili da parte dell'Europa po­trebbe essere quella di ricorrere di nuovo alle politiche protezionisti-che. E' evidente che questa azione produrrebbe effetti disastrosi nei confronti dell'industrializzazione dei paesi in via di sviluppo. Quindi occorre tener conto di una diversa distribuzione internazionale del la­voro. Questi sono i problemi da affron­tare nell'ambito della Commissione della Comunità Economica Euro­pea. Ed io sono sempre più convin­to che i paesi che si propongono di collaborare allo sviluppo non devo­no dimenticare che uno dei modi più efficaci è quello di non contra­stare lo sviluppo industriale di que­sti paesi attraverso il ricorso a poli­tiche protezionistiche. E' evidente che ciò richiede, anche da parte dei paesi europei, l'accettazione delle trasformazioni strutturali imposte dalla nuova distribuzione interna­zionale del lavoro, l'identificazione delle direttrici lungo le quali spingere il processo di industrializzazio­ne; tra queste, solitamente viene in­dicata quella delle telecomunicazio­ni, della telematica, dell'informati­ca, dell'elettronica; però non è una risposta sufficiente.

Si possono correlare tra loro la cri­si del settore automobilistico occi­dentale e la delocalizzazione delle imprese di questo settore nei paesi emergenti?

Attualmente la caduta della doman­da nel settore automobilistico, spe­cialmente negli Stati Uniti, è dovuta alla caduta della domanda interna. Il pubblico reagisce nel senso di al­lungare i tempi entro i quali rinnova l'automobile, si sposta verso model­li che consumano minor quantità di carburante. E' una trasformazione interna. Non si può affermare at­tualmente che il settore subisca concorrenza da parte di paesi in via di sviluppo.

Nel recente documento approvato dal CIPES il settore industriale vie­ne posto al quarto ed ultimo posto (mentre al primo è stato collocato quello agricolo). Cosa pensa Lei di questa classificazione?

Indubbiamente oggi l'agricoltura è il settore più importante verso il quale rivolgere l'attenzione, sia al­l'interno dei paesi emergenti sia co­me campo della cooperazione inter­nazionale. Però, come dicevo prima, questo settore richiede una coope­razione progettuale. Agricoltura vuoi dire costruire dighe, canali, opere di irrigazione, vuoi dire ricomporre la proprietà agraria, costruire centri per la distri­buzione degli attrezzi agricoli, per la conservazione, la lavorazione, la distribuzione dei prodotti. Quindi è difficile stabilire una linea netta di demarcazione tra agricoltura e indu­stria, perché, soprattutto nei paesi nei quali i raccolti sono concentra­ti in determinati periodi dell'anno, si pone come primario il problema della conservazione dei prodotti e della loro distribuzione. Per alcuni prodotti, poi, si pone anche il pro­blema della loro esportazione.

Qual è dunque la Sua conclusione sull'attuale stato della cooperazio­ne internazionale?

La mia conclusione è che esiste un problema di carattere finanziario non ancora risolto. La stessa Com­missione presieduta da Brandt (che fra gli altri ha consultato anche me), non ha dato risposte, o comunque non ha dato risposte nuove. Ma, in­dipendentemente dalle risposte che danno le commissioni, vi è uno sta­to obiettivo, rappresentato dal fatto che da un lato i paesi in avanzo di bilancia di pagamento, in questo momento, sono scarsamente pro­pensi all'investimento diretto, ed impiegano i propri avanzi in collo­camenti nel sistema finanziario in­ternazionale; dall'altro il sistema bancario ha assunto rischi tali che richiedono che esso divenga sempre più prudente nella concessione di nuovi crediti.

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