23 ottobre 2007

Intervista a Giulio Andreotti

PER UN DIALOGO EURO-ARABO
UN SEME DOPO L'ALTRO

Intervista al Presidente Giulio Andreotti
A cura di Roberto Maurizio

Il Presidente Giulio Andreotti durante l’intervista

Introduzione

Intervistare il Presidente Giulio Andreotti è come trovarsi davanti una torta gigante e non sapere da dove cominciare. La notte prima dell’intervista, rileggi mille volte le domande, le cambi, le risistemi, ma non ti piacciono. Poi parti. Una macchinetta fotografica, un telecamera digitale, un block notes e una penna. Poi, di nuovo, l’ansia: stai interrogando la storia.
L’appuntamento è alle ore 15.00, venerdì 9 giugno 2006, Corso Rinascimento, presso lo studio privato, al Senato. Niente anticamera. Subito al sodo. Gli argomenti, al di sopra delle righe: Mediterraneo, Medio Oriente, Iraq, Iran, Somalia, Darfur, Africa sub sahariana, conflitti religiosi, trialogo tra cristiani, ebrei e musulmani, rifugiati palestinesi. Un po’ troppa carne al fuoco. Quarantatre minuti di intervista, 15 giga byte di filmato, 4.500 parole. Sette giorni per sbobinare, due per capire, un anno e mezzo per una versione decente, ancora non definitiva.
In ogni risposta, scattano i riferimenti storici, vissuti in prima persona. L’ intonazione leggera e cadenzata della voce cambia di intensità solo quando si toccano problemi scottanti, mentre la gesticolazione, studiata nei minimi dettagli, e lo sguardo fisso e intenso restano inalterati, come tante pietre conficcate nella roccia compatta e taciturna. Così, i minuti diventano secondi.
Il tempo passa in fretta , mentre si affrontano le varie tematiche. Un problema viene agganciato ad un altro che si accavalla con un altro ancora che poi si ricongiunge, per allontanarsi di nuovo in un secondo momento. Una continua altalena che si intreccia con situazioni particolari e personaggi che hanno fatto la storia o che continuano ad essere al centro degli interessi internazionali: da Mahmud Ahmadinejad a Hamas, ai rifugiati palestinesi in Libano. Poi, Teodor Hertz e i Congressi sionisti. Dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati palestinesi al Vaticano. Da Mogadiscio a Il Cairo. E poi: Gamal Abdel Nasser, Josip Broz Tito, Yasser Arafat. Un salto in Algeria: il Presidente Abdelaziz Bouteflika e la Signora Boumedienne. Sant’Agostino e Papa Benedetto XVI. La Lega Araba e l’Unione Africana. Gli Orazi e Curiazi di Hafez al-Assad padre, e, infine Guido Carli e Erasmus da Rotterdam. Un bel cast, non c’è che dire. L’intervista, concessa alla rivista “Il Raggio”, viene qui riproposta (riveduta, corretta e corredata da nuove foto) perché piena di significati e riferimenti utili per contribuire a formarsi un’opinione del passato e del presente. Il futuro, secondo Andreotti, è nelle mani delle nuove giovani generazioni che dovranno guidare i cambiamenti e le trasformazioni passo dopo passo, seme dopo seme.



LA GIUSTA COLLOCAZIONE? L'“EQUIVICINANZA”


Il Mediterraneo e il Medio Oriente sono da molto tempo aree instabili. Oggi, la situazione di crisi sta allargando se, a queste aree, aggiungiamo l’Iraq, l’Iran, la Somalia e il Darfur. Lei, come profondo conoscitore dell’area, più volte coinvolto in prima persona in situazioni difficili, molto apprezzato in tutte le capitali del Medio Oriente, come vede il futuro di questa cruciale parte del mondo?
I problemi del Medio Oriente e del Mediterraneo sono di vario tipo. Alcuni, quelli più acuti, attirano immediatamente l'attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Quando si parla di Medio Oriente, occorre non la­sciarsi prendere dalla prima impressione.



Il Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad
http://www.larepubblica.it/

Ad esempio, alla dichiarazione del Presidente irania­no che contesta il diritto di esistenza di Israe­le, l'Occidente non deve reagire con toni al­trettanti aspri. Secondo me, bisogna cercare di offrire degli spunti positivi e nel momento attuale questa ricerca di colloquio vale an­che per Hamas. Tutti sono preoccupati di Hamas. E' vero che al suo interno esiste una componente violenta, ma questo non deve impedire di perseguire la strada del dialogo. La ricerca comune di un confronto di idee de­ve essere incoraggiata. Se prevale la visione in negativo, dicendo, siccome voi siete così duri, noi non vi diamo più aiuti, allora non si farà nessun passo avanti. Questa non è la stra­da da percorrere. Quali sono, invece, le vie da seguire?
Ritengo che i vari argomenti di contrasto vadano affrontati separatamente. Prendiamone uno tra i più acuti: i ri­fugiati palestinesi in Libano. Da più di mezzo secolo, uomini, donne e bambini, non amati dai libanesi, aspettano una risposta alle loro richieste di poter vivere dignitosamente. Cosa fare? In primo luogo, non si può risolvere il problema di questi rifugiati facendo ricorso alla soluzione avanzata all’inizio della storia del movi­mento sionista da Teodor Herzl, cioè quella di creare un insediamento ebraico in Uganda. Questa ipotesi di Hertz sottoposta al Sesto Congresso sionista venne accantonata e respinta, solo dopo la sua morte, dal Settimo Congresso. Forse, li ci fu la spinta degli inglesi che non volevano perdere la loro presenza in Palestina. Comunque, morto Herzl, non se n'è più parlato. Inizia­rono a prevalere gli interessi verso la Palesti­na: acquisto di terreni, espatri clandestini, ecc.. Quindi, non si può indicare sulla cartina geografica un posto al mondo, come l'Oceania o l'Africa, e spedirci tutti i rifugiati palestinesi.





Credo che la risposta giusta debba provenire da un forte intervento da parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite attraverso la sua Agenzia specializzata per i Rifugiati Palestinesi in Medio Oriente (Unrwa). Un organismo specializzato dell’Onu non può limitarsi ad offrire solo sussidi alimentari.


Camion dell’Unrwa impegnato in Libano
Foto del World Food Programme
(www.wfp.org/italia)

Un altro problema è quello di evitare il massimalismo intransigente. Sia da una parte, sia da un’altra. Queste chiusure improvvise spuntano fra le parti in causa, quando meno te l’aspetti. Per questo, di recente, ho inventato una parola nuova: “equivicinanza”, un termine che in italiano non esiste, mentre sul nostro vocabolario si trova equidistanza. Questo neologismo mi è stato suggerito dall'atteggiamento dei due ambasciatori israeliani a Roma, uno presso i Vaticano e l’altro presso il Quirinale. Que­st'ultimo sostiene: "o sei con noi, o sei contro di noi". L'altro, invece, ha un atteggiamento "equivicino", perché è più vicino alle posizioni dei cat­tolici e degli arabi. Questo che, secondo me, è l’atteggiamento giusto da perseguire e l’”equivicinanza” mi fa passare, di solito, come un ostinato sostenitore degli arabi. In ultima analisi, dunque, non si può pensare di risolvere i problemi dicendo semplicemente o “sei per i palestinesi o sei per gli israeliani”.
Per quanto riguarda l’altra parte della domanda in cui è stato sollevato il caso della So­malia, uno tra i paesi più complicati del mondo, desidero solo ricordare: i legami che storicamente ci uniscono a questo paese del Corno d’Africa; l’errore dell’unificazione tra la Somalia inglese e la Soma­lia italiana; l’analisi americana non approfondita sulle differenze tra Somalia e Etiopia; e, infine, il grande lavoro svolto dalla nostra cooperazione a favore di Mogadiscio in campo giuridico e soprattutto con l’istituzione dell’università che funzionava veramente bene. Adesso le ultimissime battute non le conosco, ma il disordine esistente, non può far altro che rammaricarmi.


Guerra in Somalia
http://www.elmundo.es/

L’”equivicinanza” con gli arabi, Le ha permesso di conoscere personalmente molti leader di quest’area. Con chi si è sentito più in sintonia?


Ho avuto occasione di incontrare molti leader arabi. Nel passato, con loro, ho dialogo molto ottenendo anche risultati concreti. Mi sono trovato in sintonia, ad esempio, con il Presidente Bouteflika, un interlocutore attento che mi impressionò fortemen­te quando venne al meeting di Rimini e co­minciò il suo discorso dicendo: “vi porto il sa­luto da parte di Sant'Agostino”. Ci fu un entu­siasmo straordinario che riscosse anche in altri convegni. Anche con altri leader arabi ho dialogato bene. Alcune volte, avevano un aspetto di una ta­le intransigenza per cui anche il dialogo fini­va per rimanere, così, senza uno sbocco. Ricordo un altro personaggio importante, come Nasser, con il quale ho passato un in­tero pomeriggio a casa sua ad Alessandria d'Egitto. Allora, Nasser era molto infatuato dalla passione per i “Non-allineati”. Per cui, Tito era un punto di riferimento: “il non plus ultra”. L'er­rore di Nasser fu quello di aver accentuato troppo l'aspetto politico e fece perdere all’università de II Cairo il ruolo che aveva conquistato sul piano culturale in tutta l'area mediorientale.


Gamal Abdel Nasser
http://www.britannica.com/


Josip Broz Tito
http://www.myboite.it/



Oggi, i protagonismi si allargano a mac­chia d'olio ed una delle difficoltà principali è di non avere un solo interlocutore. Abbia­mo avuto difficoltà nei Protocolli d'intesa tra le diverse religioni, per il moltiplicarsi degli interlocutori. Nella realtà, invece, notiamo dei grossi passi avanti nel dialogo interreligioso, tralasciando gli aspetti giu­ridici. Assistiamo alla nascita di centri dove esiste un grande rispetto reciproco. A Roma, la Moschea funziona bene e non ha mai creato problemi e uno dei punti di dialogo di eccellenza, sia pure ancora più potenziale che reale.



ALGERIA. PONTE TRA L’UNIONE EUROPEA E L’UNIONE AFRICANA




Il Presidente dell’Algeria, Abdelaziz Bouteflika


Il Presidente dell’Algeria, Adbelaziz Bouteflika, in occasione dell’assegnazio­ne del dottorato Honoris Causa da parte dell'Università della Sapienza di Roma, alcuni anni fa, ha parlato con gli studenti sulla ri­conciliazione e sulla pacificazione in Alge­ria. Il Presidente algerino, non a caso, ha scelto l'Italia come sua prima tappa fuori dal suo paese. Lei crede che il Presidente Bouteflika pos­sa essere un interlocutore per l'Italia, per l'Unione Europea per l'Unione africana?
Certo il Presidente Bouteflika è un interlocutore vali­do anche perché ha avuto un'esperienza per­sonale di Nazione Unite che gli ha dato un metodo d'approccio che gli ha permesso di raggiungere risultati positivi in campo politico. L'Algeria prima era al centro della cro­naca quotidiana per tutto quello che accadeva. Oggi, grazie a Bouteflika, una parte no­tevole questa situazione è stata superata. Il Presidente algerino è sicuramente un in­terlocutore affidabile per l'Italia e per l'Unione Europea (Ue). Ma anche per l’Unione Africana (Ua). Su questa terra non c'è mai il Paradiso terrestre, ma penso che qualche passo avanti si potrà realizzare sfruttando il potenziale che po­trebbe essere aggiunto da un'Unione Africana ben funzionante. L'Unione africana nac­que con un dichiarato modello di rifarsi all'Ue.

La bandiera dell’Unione Africana




La bandiera dell’Unione Europea


L'unico paese non africano che partecipò al­la nascita dell’Unione Africana, a Sirte (1999), fu l'Italia. Intervenne un nostro Sottosegretario al Ministro degli Af­fari Esteri. L’Unione Africana ha un disegno enorme, molto più complicato rispetto all'Unione Europea: non è una realtà omogenea. Però, le riunioni a livello di Capi di Stato vegano svolte regolarmente, la struttura di segreteria generale esiste. Ma la stampa internazionale non se ne occupa pochissimo.



MENO FANTASIA, PIU’ CONSISTENZA

La bandiera della Lega Araba

La Lega Araba nella dichiarazione di Bei­rut ha proposto il riconoscimento dello Sta­to d'Israele a condizione che sia creato uno Stato indipendente palestinese e sia effettua­to il ritiro di Israele dai territori occupati a partire dal 1967. Qual è la sua opinione?



Afez al-Assad, Presidente della Siria dal 1971 al 2000



La formulazione della Lega Araba, così come concepita nella domanda, forse, è troppo rigida. Non si può chiedere il riconoscimento sottoposto a con­dizioni precise: se non ti ritiri non dialogo e non ti riconosco. Bisogna trovare delle espressioni più elastiche. Non ci devono esse­re condizioni capestro, così molte cose potrebbe­ro essere superate. Ho memoria precisa. Prima della Conferenza di Madrid, c'erano delle difficoltà in modo particolare da parte di Assad padre, che aveva espresso con molte riserve. Io sono andato a trovarlo. Par­lammo a lungo. Lui aveva le idee molto precise. Mi disse: “credo che non siano maturi i tempi, però, non voglio essere io il re­sponsabile del fallimento della conferenza”. “Lei faccia pure la conferenza, però, poi, dopo, al­la fine, occorre che Israele tratti anche sepa­ratamente con la Giordania, con noi, con il Libano”. “La conclusione, però, deve essere si­multanea”. Ricordo che Assad padre disse la frase: "io la fine degli Orazi e Curiazi non voglio farla". Di fatto, ci sono alcune cose di cui poi non se è più parlato, ma esistono. Il Golan, per esem­pio, è un territorio occupato, non se ne parla mai. Per fortuna non ci sono azioni militari. La situazione è piuttosto calma. Indubbia­mente anche questo problema deve es­sere risolto. Anche perché c'è su questo una decisione di alcuni anni fa della Knesset: qualunque cosa decida il Governo in merito dovrà essere sottoposto a referendum.
Il referendum lo citò, una volta, anche Arafat. Forse era una giustificazione abile, ma quando Arafat si trovò dinanzi a Clinton, quando c'erano pro­spettive molte positive, disse: "non vorrei che io mi esponga e dica di sì e poi ci sia un referendum".



Yasser Arafat


Questa è storia passata. Quello che conta adesso è di non dimenti­care che alcuni problemi di questi permangono. Come il Golan di cui non se ne parla mai.
In sintesi: non c’è una soluzione per ogni questione, ma i problemi devono essere affrontati e risolti simultaneamente.
La strada giusta, in ogni caso, è quella di lanciare programmi di cooperazione su tutti i fronti. Immigrazione e status degli immi­grati sono due facce della stessa medaglia. Penso che l'Ue abbia un ruolo impor­tante, come quello che ebbe negli anni '80, quando la Dichiarazione Ghencher e Co­lombo a Venezia fu l'inizio del dialo­go che sembrava un tabù. Si pensava a qual­cosa di fantastico. Ma al dialogo si è arriva­ti seppure lentamente. Il punto di partenza deve essere riportato al 1948 quando l'Onu aveva creato lo Stato d'Israele e lo Stato ara­bo. Solo che uno c'è e l'altro non c'è. Non bisogna dimenticarlo. Altrimenti si lavora solo di fantasia.


IL DRAMMA DEI RIFUGUATI PALESTINESI

Non tutti conoscono le cifre sui rifugiati palestinesi ed ebrei. Dal 1949 al 1967, più di seicentomila palestinesi hanno lasciato la loro terra e più di un milione di ebrei han­no dovuto abbandonare i paesi arabi dove vivevano. La comunità internazionale ha cercato di aiutare i rifugiati come poteva. Finché, nel 2003 è nato un progetto vera­mente valido ed ambizioso, "Al Sharkia", che ha come obiettivo di dare una casa a tut­ti i rifugiati entro il 2010. Lei crede che que­sto traguardo potrà realizzarsi?
Questo progetto è realistico. Cioè, si po­sa su una prospettiva concreta, quella di creare un interesse comune, che accanto a quello che sono le intese diplomatiche e i rapporti culturali, crei delle relazioni mate­riali di interessi comuni di iniziative comu­ni. Per dare una sensazione precisa che si vo­glia fare qualcosa di concreto, magari un gradino per volta, si cominci una salita, poi si passa a una risalita. Se ci si ferma su posi­zioni di rigidità e di incomunicabilità, non si faranno passi avanti. Credo che nell'avveni­re tutto si risolva. Ma l'avvenire complica i problemi. Uno fra tutti, la crescita della po­polazione di un ceppo rispetto all'altro è molto forte. Occorrono correttivi adeguati.



Giulio Andreotti, Yasser Arafat e Raffaello Fellah
http://www.30giorni.it/

Bambini palestinesi in Libano
Foto: dell’Unrwa



Una foto del sito ufficiale dell’Unrwa

BENEDETTO XVI E IL TRIALOGO





Papa Benedetto XVI
http://www.convegniecongressi.it/

In che modo il Pontefice, Papa Benedet­to XVI, può contribuire al raggiungimento della pace in Medio Oriente e a sostenere il trialogo monoteistico?

Il trialogo monoteistico fra cattolicesimo, islamismo e ebraismo, che è una tradizione non nuova, verrà sicuramente appoggiata dal Pontefice. Il ruolo di Benedetto XVI, che è un grande teologo, nel dialogo per la pace in Medio Oriente, può essere decisivo solo se si riscontrerà la buona volontà di ascolto fra tutte le parti in causa.
A questo proposito, mi ricordo che du­rante un tentativo di lanciare il trialogo mo­noteistico, qualche decennio fa, durante un incontro promosso dall'Associazione Manzù, un rappresentante chiese la parola per fare una dichiarazione preliminare: "lo Stato d'Israele non ha diritto di esistere". Quest'atteggiamento fa cadere le braccia. Benedetto XVI può sicuramente contri­buire ad aiutare un certo recupero di dialo­go culturale. Abbiamo la stessa origine in Abramo, che non è solo un modo di dire. Il trialogo serve per non irrigidirsi solo su un problema strettamente politico, strettamente geografico, ma inten­de creare una base culturale, concettuale e anche spirituale, direi, per potere dire cer­chiamo insieme le soluzioni.
Una sorta di trialogo particolare è stato cercato anche at­traverso un'altra forma mettendo insieme gli ex combattenti Giordani, Palestinesi e Israeliani. Per ben due volte il tentativo riu­scì. Alla terza i Palestinesi cominciarono a discutere con gli Israeliani. Durante altri incontri, a cui ho partecipa­to per gestire il trialogo e il dialogo israeliano-palestinese, ricordo che c'era anche la Signora Boumedienne, si alzò una giovane donna che, rivolgendosi ad una sostenitrice della causa palestinese, disse "lei parla be­ne, ma se avesse come me due bambini che devono andare a scuola su due diversi autobus per paura di perderli tutti e due insieme", uno suda freddo, sentendo frasi di questo genere. Cionostante, quello che contava realmente in quella riunione è che si discuteva realmente. La diffidenza è un'altra arma contro il dialogo. Gli stessi giornalisti vengono visti male se hanno dei rapporti con l'altra parte. I problemi quoti­diani israeliano palestinese, qualche volta sembrano meno acuti, perché vengono oscurati dalla crisi iraniana, dall'Iraq. Tutto ciò, invece, in quell'area, non fa altro che sommarsi agli altri problemi già esistenti.

CONTINUITA’ NELLA POLITICA ESTERA ITALIANA

In Italia, il passaggio dal un Governo ad un altro avrà delle ripercussioni a livello di politica internazionale? Lei prevede dei cam­biamenti nella politica estera italiana verso i paesi arabi? Quale sarà il ruolo dei senato­ri a vita nelle scelte decisive di politica este­ra, come ad esempio il ritiro dall'Iraq?





Roberto Maurizio, durante l’intervista

Io penso che il passaggio da un Governo ad un altro non inciderà sulla politica estera italiana che si fonda su cinquant'anni di esperienza. Le scelte di politica estera pre­scindono dalle formule di Governo, per cui credo che tutto rimarrà inalterato. Forse in alcune aree mediorientali potranno miglio­rare i rapporti tra i paesi, soprattutto là dove questi rapporti erano un po' tesi, come con la Libia. Cambieranno soprattutto I contatti su un piano personale. Il resto dovrebbe ri­manere stabile, come, ad esempio, sul ritiro dall'Iraq. Tra maggioranza e opposizione at­tuali si è abbastanza concordi. Si era detto il ritiro entro il 2006. E così dovrà essere. An­che il passato Governo aveva parlato di ritiro entro quella data. Nessuno può pensare però che entro il 31 dicembre 2006 si rag­giunga una specie di Paradiso terrestre tra sciiti, sunniti e curdi. Se questo deve essere fatto facciamolo, però, il più presto possibi­le, perché i nostri soldati sono esposti ogni giorno a reazioni anche violente. Il proble­ma di fondo, però, va ricercato a monte. Per­ché è iniziata questa guerra? Questo ce lo spiegheranno gli storici, forse fra 50 anni. Ma adesso, per quello che riguarda l'Italia, credo che le cose dovrebbero seguire il loro corso naturale, anche sentendo le dichiara­zioni del Ministro D'Alema che ha fatto recentemen­te, d'intesa con lo stesso Governo iracheno è convinto del ritiro italiano. Per quanto riguarda il ruolo dei senatori a vita non credo che influenzerà molto sulla scelta del ritiro dall'Iraq, essendoci una va­sta maggioranza del Parlamento a favore, su altri argomenti, c'è da discutere.


LE TAPPE DEL DIALOGO UE - MAGHREB

L'accordo di associazione fra Unione maghrebina e Unione Europea persegue obiettivi ambiziosi. Sono state, previste an­che tappe molto rigide come quella del 2009. Lei, che di scadenze se ne intende, perché è riuscito ad indovinare non solo l'anno, ma anche il mese e il giorno dell'ingresso dell’euro sulla scena monetaria europea, è in grado adesso di fare lo stesso con quest’altra scadenza?










Maghreb, in arabo Al-Maghrib, vuol dire Occidente


Si riparte dal Processo di Barcellona, che era stato però reso anche un po' sterile, per­ché inizialmente non c'era la Libia. Uno dei punti essenziali del Processo, a mio avviso, è quello che prevede di regolare l'immigra­zione e lo status degli immigrati. Anche qui, troviamo, come al solito, posizioni molto nette: da una parte, quelli che a tutti i costi vogliono chiudere le frontiere e, dall'altra, quelli che vogliono lasciare l'ingresso sen­za controllo. Invece, la strada giusta è quel­la di lanciare programmi di cooperazione su questa materia. Immigrazione e status degli immigrati sono due facce della stessa me­daglia. Chiudere il processo di immigrazio­ne e le frontiere, significherebbe colpire l'e­conomia di molte zone economiche italiane, non solo quelle agricole, ma anche delle pic­cole e medie imprese. In molti settori anche ad alto livello tecnologico, c'è bisogno di costruire insieme un modello di questa con­vivenza. D'altra parte, il problema non è so­lo nostro, ma anche della stessa Inghilterra e della Francia. A Londra come a Parigi, il problema dell'immigrazione esiste e va affrontato. Nel 2015 la percentuale di islami­ci in questi paesi sarà molto forte. Penso che anche in vista di questo, bisogna trovare dei modi di convivenza pacifica. Uno dei temi connesso all’immigrazione è quello dell'insegnamento religioso. Nel no­stro paese, ad esempio a Mazara del Vallo, circa un quarto della popolazione è costitui­ta da tunisini e algerini istruzione religiosa anche per loro. Se chiudere le frontiere non va bene, anche la libera circolazione da sola non diven­ta automaticamente la panacea di tutti i pro­blemi.




Mazara del Vallo: la Kasba
http://www.mazara.com/

Uno dei primi punti da affrontare è il riconoscimento reciproco. Un altro è quello relativo al reciproco ricono­scimento dei quadri. Per cui, agli immigrati che vivono da diversi anni in Italia deve es­sere riconosciuto il diritto attivo e passivo di voto perlomeno nelle elezioni amministra­tive. Il mondo va verso l'integrazione e il no­stro paese deve cercare di allinearsi con i tempi nel rispetto delle nostre tradizioni.
Per quanto riguarda la data dell' entrata in vigore dell'euro, debbo dire che il merito non è tutto mio. Mi sono avvalso del suggeri­mento dell'allora Ministro del Tesoro, Gui­do Carli, che saggiamente disse “o si prende un impegno preciso per l'euro, altrimenti, se è solo un indirizzo, sarà co­me un calice levato in alto alla fine di un pranzo”.




Guido Carli
http://www.confindustria.it/

Gli Stati Maghrebini hanno raggiunto un grado di stabilità al loro interno, in quanto gli interlocutori sono gli stessi da pa­recchi anni. Bisogna guardarli, però, uno ad uno. Alcuni hanno delle caratteristiche più aper­te, come la Tunisia, dove esiste un'ampia aper­tura interreligiosa. Ricordo che quando ci fu il passaggio dall'Algeria francese all'Algeria algerina c'erano alcune personalità, anche cattoliche, come l'arcivescovo francese d'Algeria, che era diventato algerino, che, pensavano come ad una sconfitta la perdita delle colonie. Per me, invece, è stato un bene. La politica anticoloniale ha per­messo di far arrivare la Libia all'indipen­denza senza lacrime e sangue. A volte, bisogna avere la capacità di guardare lontano. C'era anche un po' di ipocrisia, perché c'era que­sto spirito anticoloniale, ma soltanto per le colonie nostre. In certi momenti, quando la Cirenaica era in procinto di rimanere italiana, i france­si si opposero.




Quindi, visto dall'esterno, a me sembra che l’Accordo di associazione tra le due entità, stiano seguendo le linee giuste della cooperazione e dell’avvicina­mento. Quali siano le difficoltà obiettive e le difficoltà legate anche alle si­tuazioni interne agli Stati maghrebini, sono questioni che vanno visti attentamente. Io non posso vedere e giudicare da qui. Posso fare un augurio nell'interesse di tutti, ricordando che i gran­di processi storici fanno tre passi avanti e uno indietro. Poi, ancora un passo avanti. Ciò che conta è Il disegno, e il disegno è giusto.

I FONDAMENTALISMI
La stabilità e la sicurezza nel Mediterra­neo si trovano spesso di fronte al fondamen­talismo? Cosa si può fare per combattere le forme estreme di intolleranza?




Testi sacri

Ci sono due aspetti. Il primo è inerente al bisogno di cercare di avere rapporti intensi con i vicini. Le due sponde del Mediterra­neo, quella Sud e quella Nord, devono in­tensificare la cooperazione tra di loro. L'Ita­lia, in particolare, deve dare la massima priorità a questi rapporti. Senza mancare di riguardo a nessuno Stato sovrano del mon­do, ma io penso che intensificare le relazio­ni con la Nuova Caledonia non sia la stessa cosa che sviluppare la cooperazione con i paesi dell'Africa del Nord e del Medio Oriente. L'altro aspetto da tenere in considerazio­ne è quello di rifiutare la tesi che terrorismo voglia dire Islam. Molto giustamente, il Pre­sidente George W. Bush , lo stesso giorno dell' 11 set­tembre, disse: Osama Bin Laden è un traditore del­la propria religione. Una frase molto espres­siva che cerca di fare chiarezza ed elimina­re la confusione. Ci sono fondamentali isla­mici e fondamentalismi non islamici. Occorre, a mio avviso recuperare tutto ciò che può si unire, far dialogare dialoga partendo anche dalle cose più semplici, dai giovani, dallo sport campi di avvicinamento popolare che superano le barriere rigide.








L'11 settembre


ANDREOTTI, DOMANI

Quale sarà il ruolo di Andreotti nei pross­imi anni?





Io debbo pensare più all'altra vita che a questa. Ho 87 anni. Io non ho nessun ruolo, se non nel Senato e presso l'opinione pub­blica. Questo tipo di discorso lo faccio sem­pre. Anche ai giovani. Ad esempio, alcuni giorni fa, presso l'Università di Padova, che è una città molto vivace, su un tema specifico come quello dei 60 anni della nostra Repubblica e della nostra Costituzione, ho vi­sto che con i giovani si colloquia bene se si toccano questioni concrete. L'Europa è un tema reale, che interessa le giovani ge­nerazioni. Un certo cammino comune si sta facendo, basti pensare al progetto Erasmus. Le vere trasformazioni non si fanno da un momento all'altro. E i giovani sono concreti, si interessano di progetti tangibili. Sono piccole gocce d'acqua che creano un oceano. Ma, le vere trasformazioni non si fanno in modo sbrigativo . Sono convinto che, per raggiungere le mete prefissate, si debba seminare nel verso giusto, mettendo i semi uno dietro l'altro.

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